mercoledì 24 gennaio 2018

Un vero addio

Decisi che non sarebbe finita così, senza che ci spiegassimo. Una sportellata in faccia non era il degno finale per nessuna relazione amorosa, figurarsi la nostra, che era durata degli anni. Presi in mano la cornetta e la chiamai, m'ero preparato una specie di discorso che, stando alle mie intenzioni, avrebbe alleggerito non poco la situazione. "Ciao, sono io..." le dissi e approfittai del suo silenzio per inoltrarmi nel mio monologo, ma non feci in tempo a dire che poche parole: non ne venne fuori una frase compiuta che lei scoppiò a ridere della grossa. Rimasi di stucco. 
Rideva in modo così sguaiato che non potevo credere di essere al telefono con lei: "Pronto! Giulia!" dissi, ma nessuna risposta interruppe quella strana risata che si stava facendo strada nell'etere e nella mia testa con una specie di grido di battaglia animalesco.
Riattaccai senza riporre la cornetta e me stetti lì immobile con l'eco di quel suo ridere in faccia alle mie intenzioni. Non ricordavo di averla mai sentita farlo a quel modo, eppure, ne avevamo passate parecchie insieme. Rideva spesso alle mie battute, rideva al cinema davanti a una bella commedia, rideva sarcastica ogni volta che qualcosa le andava storto o ogni volta che qualcuno le faceva un torto, ma mai, proprio mai, le avevo sentito sferrare una risata del genere.
Pensai avesse persino qualcosa di soprannaturale.

Attesi ancora qualche istante e rifeci il numero: non potevo certo permettere che finisse così. Mi sentivo in qualche modo ferito e reso inerme di fronte ad una donna che avevo amato e che alla fine s'era trasformata in una specie di orco famelico.
"Pronto!" dissi non appena il suono di libero si interruppe, tuttavia non feci in tempo ad aggiungere nient'altro: la risata sembrò riprendere da dove il mio riagganciare l'aveva interrotta. "Cristo, cresci un po'!" le dissi e poi riattaccai di nuovo. Ero esterrefatto, frastornato, non sapevo davvero a cosa pensare. Mollai la cornetta e la lasciai lì a mezz'aria a penzolare sulle piastrelle e poi andai ad accasciarmi nella poltrona. Non ero in grado di elaborare nessuna teoria, mi sentivo soltanto sconfitto, interiormente distrutto. Dei tanti sentimenti solo la rabbia avrebbe potuto salvarmi e in effetti così fu. Mi alzai di scatto, infilai le scarpe e chiavi in mano mi diressi verso l'auto: se nel sottoscritto c'era davvero qualcosa che la faceva così ridere, allora valeva la pena che me lo mostrasse di persona. Anche le risate hanno un prezzo ed io ora ci tenevo a mostrarle il mio.
Arrivai a casa sua in un attimo, così veloce che tuttora non ricordo nulla del tragitto che feci, delle persone che incrociai, della musica che uscì dalla radio lungo la strada. Nulla, guidava la rabbia. Suonai al citofono, si può dire che mi ci attaccai su, ma non ricevetti alcuna risposta. All'interno si vedevano delle luci accese: quelle della cucina e del salotto, al piano terra, e quella del bagno al piano superiore.
Fissai lo sguardo sulle tende del salotto e subito colsi un movimento al di là della coltre bianca: un'ombra, la sua ombra, mi parve ridesse accompagnandosi con movimenti del collo e delle mani, come una marionetta troppo cresciuta. Con un balzo scavalcai la ringhiera e colmo di rabbia mi fiondai verso la porta d'ingresso senza curarmi di nulla: del praticello all'inglese, dei fiori nell'aiuola, del cane che pure conoscevo così bene, dei vicini che invece conoscevano bene me e potevano certo male interpretare il mio impeto. Sferrai i primi pugni alla porta intimando di aprire, di aprire subito e siccome non potevo sopportare l'attesa li accompagnai con dei calci talmente violenti da far tremare tutto l'infisso.
Ero accecato dalla rabbia e uno strano senso di giustizia stava facendosi largo in me: l'orgoglio ferito aveva ormai preso il sopravvento e sapevo, conoscendomi bene, che non sarebbe stato facile riprendere il controllo. La sentivo ridere attraverso la porta e quella mancanza di paura e di rispetto verso la mia persona non faceva altro che farmi montare su tutte le furie. Il risultato fu che presi a dare delle violente spallate alla porta finendo ben presto per scardinarla: dalla fessura che venne ad aprirsi fece capolino una fettuccia di luce che man mano che spingevo diveniva sempre più larga, sempre più potente.
Pochi istanti dopo la porta cedette di fianco e fui dentro.

La stanza mi accolse disarmata mostrandomi subito alcuni mobili fuori posto, un paio di sedie sottosopra e diversi cuscini per aria. Lei era lì, in ginocchio al centro della stanza. Rideva ma il suo volto era rosso di fuoco e completamente bagnato. Sembrava un incrocio tra un bambolotto e una di quelle madonnine miracolose che ogni tanto spuntano in qualche giardino privato. Solo avvicinandomi mi avvidi che tra una risata e l'altra tentava di infilarci alcune parole, sempre le stesse: "Non lasciarmi" diceva col viso dilaniato da quella sua infinita risata isterica. Ma non potei farci nulla. Caricai il braccio e le sferrai una sberla sperando che, stavolta, il nostro fosse un vero addio.

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