mercoledì 7 febbraio 2018

Mister Bacione

Quando suo cugino Andrei lasciò la Bulgaria per trasferirsi definitivamente in Italia, Ivan aveva soltanto quindici anni ma in cuor suo aveva già deciso che un giorno si sarebbe fatto coraggio e l'avrebbe seguito. Quel tale giorno alla fine gli arrivò addosso senza farsi tanto preannunciare: non così alla svelta, ma nemmeno tanto tardi, dal momento che Ivan aveva appena soffiato sulle sue prime diciotto candeline. Non troppo sorpresi dalla sua decisione di migrare, nessuno dei genitori ebbe comunque il coraggio di opporsi: a Ivan parve che il padre ne fosse perlopiù sollevato, mentre la madre pur lacrimando copiosamente non fece altro che mettergli le braccia al collo e dargli un ultimo consiglio: “Sii gentile con tutti” disse e Ivan le giurò che non solo lo sarebbe stato di certo, ma che pure avrebbe usato sempre una doppia dose di gentilezza in ogni caso della sua nuova vita italiana. In Italia Ivan ottenne da subito l'ospitalità di Andrei e di sua moglie Antonia, una fruttivendola di origini calabre anch'ella trapiantata nella bassa veronese.

Dopo un breve periodo di ambientamento fatto perlopiù di vagabondaggi e di brevi esperienze lavorative, Ivan riuscì a farsi assumere da un piccolo trasportatore locale che gli affidò da subito la zona che conosceva meglio, quella circostante la sua nuova casa. Fu così che per Ivan incominciarono contemporaneamente non una, ma ben due carriere, anche se lui non ne ebbe mai la percezione: col suo vecchio furgone sgangherato se ne girava in lungo e in largo tutto il santo giorno distribuendo, per lavoro, pacchetti di varia forma e misura, e sorrisi e baci con il solo scopo di compiacere la madre ormai lontana anche nei ricordi.
Ivan prese così a farsi conoscere da tutte le aziende della zona e dai loro dipendenti. Giungendo il mattino per le consegne dei pacchetti egli si ingraziava le impiegate sfoggiando dapprima dei larghi sorrisi e in seguito pure dei bacetti sulle guance che lo facevano arrossire quasi come l'uniforme che indossava, mentre, arrivando il pomeriggio per i ritiri della merce, egli non mancava mai di fare due chiacchiere con tutti i magazzinieri indaffarati o fare combriccola con qualche operaio in pausa.
Tutto questo via vai contribuiva a rendere Ivan una persona felice, nonostante il lavoro fosse pesante e la paga appena sufficiente a sopravvivere, tuttavia una sera come tante, rincasando, egli si rese conto di essere cambiato, di aver perso per strada parte della sua ormai proverbiale gentilezza. “Madre, mi sono innamorato” annunciò Ivan una sera sbraitando nella sua lingua dentro a un vecchio Motorola tenuto insieme dallo scotch: “E' una impiegata molto carina” disse cadendo poi in un silenzio quasi disperato: “Però” aggiunse: “Se io sono gentile con tutti, sai, anche con le sue colleghe, come farà a capire...?” disse e poi riattaccò lasciandosi inghiottire dal sedile del furgone.
Egli infatti si conosceva abbastanza bene da sapere che non sarebbe mai stato in grado di dichiararsi apertamente: l'unica sua possibilità era quella di gettare un amo e sperare che abboccasse il pesce.

Il problema di Ivan però era che gettava troppi ami. Fu così che cominciò a dedicare alla ragazza attenzioni che egli supponeva essere abbastanza diverse da quelle che dava alle altre. Quando se la trovava davanti l'abbracciava e la baciava non più due ma ben tre volte facendo schioccare così forte le labbra che i suoi baci divennero ben presto famosi in tutti gli uffici dell'azienda: “Ehi ragazze... Guardate un po' chi sta arrivando: Mister bacione!” diceva spesso uno dei pochi uomini presenti baciandosi l'avambraccio per imitare lo schiocco che Ivan riservava alla sua ragazza del cuore. Le cose andarono avanti così, impietose, per mesi, con il povero Ivan castigato certamente dalla timidezza ma soprattutto dalla sua proverbiale gentilezza: “Madre” le disse infine una sera farfugliando nella sua lingua dentro al suo vecchio Motorola con lo scotch:
“Era meglio se mi dicevi di fare lo stronzo” sentenziò prima di sprofondare una volta per tutte dentro al sedile del suo furgone. Qualche mese più tardi, col cuore ormai spezzato, se ne andò a distribuire gentilezza nel polesine.

mercoledì 24 gennaio 2018

Giulia

Disse che s'era dimenticato qualcosa ma era solo una scusa per tornare. Entrò nel negozio guardandosi attorno come uno che vi entri per la prima volta ma ci veniva spesso e comunque ogni giovedì pomeriggio. Mi alzai dallo sgabello e gli andai incontro cercando di dissimulare il fastidio che la sua presenza in realtà mi provocava. 
Cercai di sorridere ma non so dire se ci riuscii per davvero. 
"Lei dov'è?" disse subito dopo essersi avvicinato al bancone. 
"Non c'è" gli risposi secco senza fornire altre informazioni e lui rimase lì come imbambolato, incredulo, praticamente conscio del fatto che in realtà gli stavo mentendo. 
Lo guardai negli occhi e ci vidi l'odio o qualcosa di molto, molto simile. Gli vedevo le narici gonfiarsi rapidamente e sgonfiarsi con un lieve fruscio che chiunque avrebbe scambiato per la foratura di una camera d'aria. 
"No" disse poco dopo: "Davvero... Dov'è?" 
"Andata via" gli risposi simulando del dispiacere: "E' uscita prima del tempo" aggiunsi pregando che non avesse visto la macchina nel parcheggio. 
Stavolta gli vidi le vene del collo gonfiarglisi. Nonostante fosse abbondantemente più basso di me a livello muscolare era vistosamente più dotato. I suoi erano muscoli scattanti, da vero sportivo, potevo immaginare facilmente la velocità con la quale, se avesse voluto, avrebbe potuto estendere il braccio destro fino a spaccarmi il naso. 
Ciononostante non arretrai, senza neanche sapere il perché. 
"Cosa ti serve?" gli chiesi immaginandomi subito i sorrisi di cui lei era capace: come potevo biasimarlo se pure lui vi si era perso? Mi guardò ancora più astioso, sempre più innervosito dal mio mettermi di traverso nella sua vita. 
"Niente di che" rispose, dopodiché mi snocciolò i codici di un paio di ricambi che gli feci subito preparare da un collega. 
Quando glieli misi in mano capii che la sfida di quel giorno l'avevo vinta io. Mi parve rassegnato e sconsolato insieme, come il protagonista di un film che muore dopo appena mezzora. 
"Allora beh..." disse senza guardarmi: "Salutamela quando la vedi" aggiunse e poi uscì nel piazzale sotto una leggera pioggerella che aveva iniziato a cadere. 
"Va bene" gli risposi e mentre lo vidi mettere in moto l'auto e accendere i fari non feci affatto fatica a immaginarmelo impiccato al primo albero con gli occhi ancora sintonizzati sul pianeta Giulia.

Quasi bella

Le dissi quello che pensavo e decise che se non poteva avermi, quantomeno m'avrebbe annegato. Le lacrime cominciarono a scendere rapide lungo le guance portandosi dietro buona parte del trucco diventando ben presto le gocce grigie di una pioggia acida e battente. E pensare che la prima volta che l'avevo vista m'era sembrata diversa dalle altre, un miraggio o un miracolo.
Era Quasi Bella ed era proprio quel "quasi" a farmela piacere: c'era qualcosa in lei che nonostante tutto continuava a sfuggirmi. Un neo, un dente storto, un non so che di imperfetto che mi cadeva dentro agli occhi ogni volta che cercavo di inquadrarla e farla mia per un po'. E invece... Invece, per qualche strano motivo era andata diversamente.
Quasi Bella era riuscita a prendermi prima che io riuscissi a prendere lei, mi aveva catturato mentre cercavo di metterla in trappola. M'aveva fatto cadere mettendomisi tra i piedi come una gatta ruffiana sulla quale è impossibile alzare le mani se non per regalare qualche carezza. Dopo l'estate passata insieme a ruzzolare in giro per il paese avvinghiati l'uno all'altra come una staccionata al suo rampicante, Quasi Bella si trasferì in città per affrontare gli studi lasciandomi solo ad aspettare il suo ritorno nei fine settimana. Se accettai tutto ciò fu forse perché m'ero fissato su di lei o forse perché in fondo stavo già alimentando l'amore, ma ora che son passati tanti anni, non so proprio come spiegare il mio comportamento di allora. Figuriamoci il suo.

Un sabato mattina che c'eravamo dati appuntamento in centro città, Quasi Bella non si presentò e non ebbi più notizie di lei per diversi giorni. Le telefonai nella casa che condivideva con un paio di amiche, la cercai in casa dei suoi genitori, provai a rintracciarla in ogni luogo che avevamo frequentato insieme o del quale m'aveva semplicemente parlato, ma niente: Quasi Bella non c'era da nessuna parte e non mi riuscì di saperne nulla di nulla.
Riemerse soltanto alcuni giorni più tardi come se niente fosse, alludendo a non so quali a imprevedibili circostanze, a quali incredibili coincidenze. Ci demmo appuntamento in un bar ed io ci arrivai con tre quarti d'ora di anticipo: durante la sua assenza era nato qualcosa dentro di me o forse era morto, non so ancora dire.
Quando Quasi Bella si presentò mi avvicinai a lei e le dissi che non volevo più vederla, che quella sarebbe stata l'ultima volta, che sì, non glielo avevo mai detto che non la consideravo Bella, ma Quasi Bella... e quel Quasi era il vero motivo per cui la lasciavo, per cui dovevo lasciarla. Me ne andai subito dopo lasciandola di sasso in mezzo al bar: non aveva fatto in tempo neppure a sedersi. Naturalmente qualche giorno dopo cedetti. Accettai di incontrarla e fu un grosso errore.
Disse che aveva avuto una sbandata, che aveva conosciuto un altro, che aveva sbagliato, ma non la lasciai finire: le dissi quello che pensavo e accettai di annegare purché pagasse.

Un vero addio

Decisi che non sarebbe finita così, senza che ci spiegassimo. Una sportellata in faccia non era il degno finale per nessuna relazione amorosa, figurarsi la nostra, che era durata degli anni. Presi in mano la cornetta e la chiamai, m'ero preparato una specie di discorso che, stando alle mie intenzioni, avrebbe alleggerito non poco la situazione. "Ciao, sono io..." le dissi e approfittai del suo silenzio per inoltrarmi nel mio monologo, ma non feci in tempo a dire che poche parole: non ne venne fuori una frase compiuta che lei scoppiò a ridere della grossa. Rimasi di stucco. 
Rideva in modo così sguaiato che non potevo credere di essere al telefono con lei: "Pronto! Giulia!" dissi, ma nessuna risposta interruppe quella strana risata che si stava facendo strada nell'etere e nella mia testa con una specie di grido di battaglia animalesco.
Riattaccai senza riporre la cornetta e me stetti lì immobile con l'eco di quel suo ridere in faccia alle mie intenzioni. Non ricordavo di averla mai sentita farlo a quel modo, eppure, ne avevamo passate parecchie insieme. Rideva spesso alle mie battute, rideva al cinema davanti a una bella commedia, rideva sarcastica ogni volta che qualcosa le andava storto o ogni volta che qualcuno le faceva un torto, ma mai, proprio mai, le avevo sentito sferrare una risata del genere.
Pensai avesse persino qualcosa di soprannaturale.

Attesi ancora qualche istante e rifeci il numero: non potevo certo permettere che finisse così. Mi sentivo in qualche modo ferito e reso inerme di fronte ad una donna che avevo amato e che alla fine s'era trasformata in una specie di orco famelico.
"Pronto!" dissi non appena il suono di libero si interruppe, tuttavia non feci in tempo ad aggiungere nient'altro: la risata sembrò riprendere da dove il mio riagganciare l'aveva interrotta. "Cristo, cresci un po'!" le dissi e poi riattaccai di nuovo. Ero esterrefatto, frastornato, non sapevo davvero a cosa pensare. Mollai la cornetta e la lasciai lì a mezz'aria a penzolare sulle piastrelle e poi andai ad accasciarmi nella poltrona. Non ero in grado di elaborare nessuna teoria, mi sentivo soltanto sconfitto, interiormente distrutto. Dei tanti sentimenti solo la rabbia avrebbe potuto salvarmi e in effetti così fu. Mi alzai di scatto, infilai le scarpe e chiavi in mano mi diressi verso l'auto: se nel sottoscritto c'era davvero qualcosa che la faceva così ridere, allora valeva la pena che me lo mostrasse di persona. Anche le risate hanno un prezzo ed io ora ci tenevo a mostrarle il mio.
Arrivai a casa sua in un attimo, così veloce che tuttora non ricordo nulla del tragitto che feci, delle persone che incrociai, della musica che uscì dalla radio lungo la strada. Nulla, guidava la rabbia. Suonai al citofono, si può dire che mi ci attaccai su, ma non ricevetti alcuna risposta. All'interno si vedevano delle luci accese: quelle della cucina e del salotto, al piano terra, e quella del bagno al piano superiore.
Fissai lo sguardo sulle tende del salotto e subito colsi un movimento al di là della coltre bianca: un'ombra, la sua ombra, mi parve ridesse accompagnandosi con movimenti del collo e delle mani, come una marionetta troppo cresciuta. Con un balzo scavalcai la ringhiera e colmo di rabbia mi fiondai verso la porta d'ingresso senza curarmi di nulla: del praticello all'inglese, dei fiori nell'aiuola, del cane che pure conoscevo così bene, dei vicini che invece conoscevano bene me e potevano certo male interpretare il mio impeto. Sferrai i primi pugni alla porta intimando di aprire, di aprire subito e siccome non potevo sopportare l'attesa li accompagnai con dei calci talmente violenti da far tremare tutto l'infisso.
Ero accecato dalla rabbia e uno strano senso di giustizia stava facendosi largo in me: l'orgoglio ferito aveva ormai preso il sopravvento e sapevo, conoscendomi bene, che non sarebbe stato facile riprendere il controllo. La sentivo ridere attraverso la porta e quella mancanza di paura e di rispetto verso la mia persona non faceva altro che farmi montare su tutte le furie. Il risultato fu che presi a dare delle violente spallate alla porta finendo ben presto per scardinarla: dalla fessura che venne ad aprirsi fece capolino una fettuccia di luce che man mano che spingevo diveniva sempre più larga, sempre più potente.
Pochi istanti dopo la porta cedette di fianco e fui dentro.

La stanza mi accolse disarmata mostrandomi subito alcuni mobili fuori posto, un paio di sedie sottosopra e diversi cuscini per aria. Lei era lì, in ginocchio al centro della stanza. Rideva ma il suo volto era rosso di fuoco e completamente bagnato. Sembrava un incrocio tra un bambolotto e una di quelle madonnine miracolose che ogni tanto spuntano in qualche giardino privato. Solo avvicinandomi mi avvidi che tra una risata e l'altra tentava di infilarci alcune parole, sempre le stesse: "Non lasciarmi" diceva col viso dilaniato da quella sua infinita risata isterica. Ma non potei farci nulla. Caricai il braccio e le sferrai una sberla sperando che, stavolta, il nostro fosse un vero addio.